giovedì 13 giugno 2013

Giallo d’Avola” di Paolo Di Stefano: romanzo e inchiesta giornalistica

Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico(“I Malavoglia”, Giovanni Verga)
Non mi sono stupita quando Paolo Di Stefano, in una breve chiacchierata dopo la presentazione siracusana del suo libro “Giallo d’Avola” (Sellerio editore), mi ha confessato che Giovanni Verga è tra i suoi autori prediletti. Si percepisce subito l’amore per la Sicilia, con l’accurata descrizione dei luoghi (in questo caso, non di Aci Trezza come in Verga, ma delle colline impervie e pietrose dietro Avola),con i suoi odori, colori, sapori, lo scirocco e gli effluvi di piante, come la nipitella, che travolgono il lettore. 

Di Stefano non tralascia l’ amato dialetto, quello “doc”, che si sposa perfettamente con l’italiano parlato, creando una dolce musica. Uno studio filologico e minuzioso della lingua, evitando il più possibile il format Camilleri,” perché ormai in letteratura quando si dice Sicilia,e per di più in giallo, si dice Camilleri, che è diventato un modello e insieme un tranello da evitare. Non volevo “camilleggiare, dunque dovevo far sì che il narratore si confondesse e insieme si distinguesse dai tanti personaggi che parlano”.


Un romanzo, sì. Ma non solo. Un’inchiesta giornalistica iniziata nel 2002, una dettagliata ricostruzione storica , che si ispira a un fatto di cronaca realmente accaduto negli anni ‘50. Un’opera che rispecchia Paolo Di Stefano, originario proprio di Avola, con la sua doppia anima da giornalista e da scrittore.

Questa la storia: nelle campagne di Avola, in provincia di Siracusa, la mattina del 6 ottobre 1954 un pastore, Paolo Gallo, scompare. Viene trovato solo il suo cappello e intorno alcune macchie di sangue. Ma il cadavere non c’è. Non si trova.  Le indagini dei carabinieri sono a dir poco precipitose: viene accusato presto il fratello Salvatore con il figlio Sebastiano, entrambi analfabeti. Pena: ergastolo per il primo per fratricidio e 14 anni per il secondo, per occultamento di cadavere.
Effettivamente, i rapporti tra i due fratelli risultavano tesi da tempo e diverse erano state le liti furibonde, sedate a fatica dai vicini. “Convivenza difficile, litigiosa, zuffa perenne, minacce pesanti, ritorsioni dispettose e crudeli, galline spennate e tirate di collo, parole grosse che volavano, qualche volta accompagnate da scariche di legnate, e a subire era quasi sempre il fratello più vecchio e più fragile, Paolo, la buonanima”. Determinanti e fuorvianti furono le continue grida, quasi da tragedia greca, di Cristina Giannone, moglie di Paolo, detta “la velenosa”:” L’ammazzaru, l’ammazzaru, u dìssiru e u fìciru”.

 A nulla valsero le professioni di innocenza di Salvatore e Sebastiano Gallo, a nulla le lotte dei brillanti avvocati difensori Pierluigi Romano e Piero Fillioley (alla presentazione del libro era presente, tra l’altro, Piero Romano, a destra nella foto, che ha ricordato con partecipazione ed emozione il processo seguito dal padre). Addirittura a nulla servirono le dichiarazioni di due contadini, sicuri di aver visto vivo Paolo Gallo, che furono arrestati e poi liberati, dopo aver ritrattato.


Saranno degli errori, delle “sviste” di Paolo Gallo, il quale si era nascosto a pochi chilometri da casa, in un paesino del Ragusano, a fare cadere questo castello di sabbia. Fu la firma di una cambiale e una sua deposizione in occasione di un incidente a svelare il mistero. Si arrivò alla verità anche grazie a Enzo Asciolla, giornalista del quotidiano “La Sicilia”. Per ben sette anni Salvo Gallo dovette scontare la pena per un crimine mai compiuto. Sette anni in cella per frettolosi pregiudizi e una giustizia che non è stata obiettiva. Sette anni senza aver commesso alcuna colpa.
Intorno alla vicenda, omertà, apparenza, maldicenza degli abitanti del posto, un dramma familiare e umano, che scuote le coscienze. Un rapporto di odio e di incomunicabilità tra i due fratelli, i due pseudo Caino e Abele siciliani, così diversi caratterialmente: Salvatore personaggio forte e solo apparentemente taciturno; Paolo un debole, un timoroso. Questa storia è circolata per decenni sulla bocca di tutti gli avolesi, fino a diventare una specie di epopea orale, un “caso di epica popolare”, ricorda lo scrittore, sentendone parlare tante volte a casa, tra gli amici. Diventa quasi un’ossessione. “Quel mondo era il mondo dei miei nonni; a un certo punto nella storia compare anche il padre di mia madre”.
 “Giallo d’Avola” racconta, come è scritto nella quarta di copertina, quell’”analfabetismo dell’anima, o della psiche, che vieta ogni coscienza di sé: vero lascito antropologico di secoli di depressa arretratezza, che ancora oggi può spiegare il tanto di barbarico, feroce e precivile, nei casi di cronaca nera familiare italiana”.
E’ una specie di “Fu Mattia Pascal” dei poveracci, in pratica un romanzo già scritto: un intreccio pazzesco che solo in Sicilia poteva esistere in natura”, afferma l’autore. Una Sicilia che rimane, e forse rimarrà sempre, prettamente pirandelliana, dove nulla è come sembra, dove tutto si rovescia nel suo contrario. Così è, se vi pare.



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