Buongiorno, amici miei! Dopo una mattinata di intenso studio, vi riporto una mia recensione pubblicata sulla rivista "L'Estroverso". Buona lettura!
Quando gli si chiede com’è
nata questa monumentale opera, risponde: “Volevo fare
un esperimento applicando alla letteratura i metodi compositivi musicali, in
quanto avevo avuto sempre difficoltà a
far capire a chi me lo chiede come si scrive musica classica. Così ho
preso “I Buddenbrook” di Thomas Mann
come forma di riferimento e sulla base di quel romanzo, cambiando personaggi,
storia e ambientazione ho costruito il nuovo romanzo”. Sembra avere le idee
molto chiare Carlo Pedini, autore de “La sesta Stagione” (Cavallo di ferro
editore), romanzo d’esordio del musicista, compositore e direttore d’orchestra,
più volte premiato in premi nazionali e internazionali. Si nota subito che
Pedini ha la musica nel sangue, anche dal suo modo di scrivere, che ha proprio
quella musicalità propria delle melodie più dolci .
Voce narrante
del romanzo è don Piero Mainardi (evidente omaggio a Pierre Menard del “Don
Chisciotte” di Borges), protagonista con altri due seminaristi, Ottavio
Pettirossi e Oreste Riccoboni. Tre seminaristi con caratteristiche diverse, con
personalissimi modi di fare, dovuti anche al loro vissuto. Come sfondo vi è la
Storia, anch’essa protagonista (forse vera protagonista per eccellenza), fatta
di dominanti e dominatori, di persone senza voce, di cui, appunto, si fa
portavoce.
Un excursus
molto ricco segue contemporaneamente la vicenda dei tre giovani: la seconda guerra mondiale, il difficile
dopoguerra fatto di lotte di classe e di partito, il Concilio Vaticano II, il
’68 contestatario, fino a quel capitolo nero della storia italiana
rappresentato dagli anni di piombo.
A governare la diocesi di Civita Turrita, paese immaginario
dell’Appennino toscano, vi si trova dapprima monsignor Giuseppe Angelici, di evidente
simpatia fascista, seguìto da Tazio Rubini, che cerca di conciliare le due
parti dopo la guerra e di far rifiorire ciò che sembrava ormai morto. Non si
pone, però, l’attenzione sulla loro spiritualità, ma sul sacerdozio come
mestiere più o meno obbligato: entrare in seminario fin da bambini era,
infatti, un modo per studiare e assicurarsi il vitto e un lavoro sicuro. Non
importava se non c’era la vocazione. Sarà lo zio di Piero, don Enea Mancini a
ribellarsi e a chiedere di essere sciolto dai voti, cui era stato obbligato dal
padre. Si tratta di un uomo che “chiede alla Fede sostanza e non forma”, che
cerca disperatamente la propria strada attraverso cui si possa realizzare. Una
persona alla ricerca spasmodica della sua identità religiosa e personale. Non a
caso, vive a Bologna, città disinibita, la più lontana dai valori religiosi del
Vaticano, in cui avrebbe trovato uomini di cultura che lo avrebbero difeso e
dove creò un circolo nutrito di allievi, anche universitari. Fu così che
conobbe Federica…
Il romanzo appare come un’opera
ottocentesca, molto approfondita nelle tematiche e abbastanza impegnativa, ben
lontana dai “soliti” scritti, ammettendo Carlo Pedini stesso di essere
“piuttosto critico nei confronti della letteratura italiana contemporanea.
Spesso (non sempre, ovviamente) quel che viene pubblicato è piuttosto scadente,
anche come lettura d’evasione”.
È, invece, uno stimatore convinto di
Umberto Eco, prendendo come modello strutturale “Il nome della Rosa”, “L’isola
del giorno prima” e “Baudolino”. Evidente, poi, come già detto, il richiamo a
“I Buddenbrook” di Thomas Mann, mantenendo la struttura( undici parti e
capitoli relativi) e le corrispondenze sia a livello di personaggi che di scene.
Con modestia e dolcezza, lo scrittore ammette che quest’opera è stata una sfida
con se stesso; “inoltre volevo fare una sorpresa a mia moglie che è
un’appassionata lettrice: non le ho fatto sapere niente di questo lavoro se non
quando era finito”. Imparate mariti italiani, imparate.
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